UE: Vent'anni dopo ma con un finale diverso
Torna lo spettro del 1992: non quello, che alcuni pure paventano, del terrorismo e dell’instabilità politica, ma quello della tempesta monetaria. A chi li ha vissuti gli eventi degli ultimi mesi ricordano in modo impressionante quell’estate di vent’anni fa che precedette la drammatica svalutazione della lira e di altre valute europee. La storia si ripete in forme diverse, questo lo sappiamo; ma che cosa c’è di vero e cosa di ingannevole in questa analogia?
Come allora l’Europa è divisa in due, con paesi “periferici” – collocati sempre a sud, salvo poche eccezioni anglofone – che perdono competitività e accumulano, chi più chi meno, deficit nei confronti degli altri. Se la parità monetaria non si aggiusta, le banche centrali devono colmare lo scompenso: vent’anni fa perdevano reserve valutarie, oggi accumulano debiti verso altre banche centrali. La speculazione allora aveva il volto un po’ mefistofelico del finanziere ungaro-americano George Soros, oggi si ripresenta nella forma più sfuggente e ancor meno controllabile di migliaia di soggetti, fra cui molti piccoli risparmiatori, che spostano i loro depositi verso banche percepite più “sicure”. Non si tratta di pochi lupi, come ha argomentato efficacemente un’analisi della Citibank circolata negli ultimi giorni, ma di un gregge di pecore: di solito stanno ferme, ma quando si spaventano corrono via tutte insieme e difficilmente tornano indietro.
Sappiamo, dopo le esperienze recenti, che in assenza di unione bancaria e fiscale una moneta unica non è sostanzialmente diversa da un insieme di monete legate da un cambio fisso, come alcuni invece speravano. Il rischio di crisi di fiducia non scompare: si sposta solo temporaneamente su un terreno diverso. Le banche prosciugate di depositi e di capitale dipendono sempre più dal sostegno dello stato nazionale, a sua volta depauperato dalla fuga dei capitali verso emittenti sovrani affidabili. Banche e stati nazionali si stringono in un abbraccio instabile che rovina entrambi: i casi della Grecia, in cui banche solide sono andate in breve tempo in bancarotta per la loro esposizione versio lo stato, e della Spagna, in cui è accaduto l’opposto, sono emblematici. La lezione più generale è che non basta un accordo politico pur apparentemente saldo, come fu l’unione monetaria allargata decisa nel 1998, a rendere duraturo un equilibrio economicamente precario.
Ma se la storia a volte si ripete, ciò non significa che torni indietro. A differenza del 1992, oggi l’euro è una realtà tangibile familiare a tutti. Una presenza di cui di cui gli Europei, a nord come a sud, non vogliono più liberarsi. Lo rivela a denti stretti – gli autori sono euroscettici – un sondaggio di opinione pubblicato in America negli ultimi giorni (ww.pewresearch.org): in tutti i paesi europei la grande maggioranza degli intervistati esclude il ritorno a una valuta nazionale. Lo scarto delle preferenze in Germania non è poi tanto diverso da quello in Grecia o in Spagna. Un sondaggio non è un referendum, ma l’impressione è la stessa che si ricava da altre fonti. Le persone sembrano dire ai politici: non tutti volevamo l’euro all’inizio, ma è acqua passata; ora che c’è fatelo funzionare creandoci meno problemi possibile. E a guardare bene ci sono segnali, da varie direzioni, di movimenti in positivo: la Grecia (e non solo lei) sta recuperando pur con dolore parte della competitività perduta; il baricentro politico in Germania è in movimento ma non vi sono al momento segni prevalenti di rigetto della solidarietà europea; la banca centrale europea è riuscita, intervenendo attivamente nonostante i vincoli, a contenere le spinte centrifughe più acute. Le istituzioni europee, pur con vari errori (l’insostenibilità di certi debiti e di certi programmi di aggiustamento andava capita prima) si muovono lentamente nella giusta direzione. La riedizione traumatica del 1992 può ancora essere ancora evitata.
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